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Cosmo Guastella

 

di Domenico Tubiolo

 

1. La vita e le opere
2. La causa efficiente
3. Critica al realismo
4. Critiche alla filosofia di Cosmo Guastella
5. Conclusioni

 

1. La vita e le opere
Cosmo Guastella è un filosofo misilmerese.
A lui sono dedicate una piazza e la Scuola Media di Misilmeri; ne suscita memoria inoltre un mezzo busto a metà di una palazzina borghese dell’ottocento, in corso Vittorio Emanuele. Guastella fu filosofo sui generis, figlio di una visione classica ed aulica della cultura, legato ad una tradizione di rigore ove non si dà spazio a vanità stilistiche: le sue opere sono prive di introduzioni o prefazioni, senza, nel testo, una sola concessione allo stile. Rifiutò di pubblicare articoli su riviste, al contrario di quanto abbondantemente facevano Croce e Gentile, suoi contemporanei.
Modestia e ambizione gli impedirono di rendere più accessibile un pensiero esposto su complessive 4862 pagine delle due opere pubblicate. Da qui una difficoltà di lettura cui è da collegare la scarsa diffusione del pensiero e quel destino di esclusione dai circuiti di circolazione culturale.
Cosmo Guastella nasce a Misilmeri il 28 gennaio 1854, da Vincenzo, farmacista, e da Marianna Piazza morta quando il filosofo era appena in fasce. Le condizioni della famiglia erano modeste e da un certificato rilasciato dal Comune di Misilmeri, il 5 aprile 1875, su richiesta per esenzione delle tasse scolastiche, risulta che Guastella oltre alla madre aveva tre fratelli, Gaetano, Filippo e Vincenzo, cui il padre provvedeva col frutto della sua professione per un totale, al netto, di trecento lire annue.
La famiglia non aveva altri proventi, possedendo beni immobili per 1 ettaro complessivi, valutati approssimativamente lire 1.700. Anche se le condizioni non possono considerarsi di indigenza, almeno al cospetto di quella che era la ricchezza media del periodo, certo non erano agiate. La richiesta di esonero fu accolta e Guastella poté continuare gli studi in franchigia presso il regio liceo Vittorio Emmanuele in Palermo. Quivi gli fu professore di filosofia mons. Vincenzo Di Giovanni autore di una Storia della filosofia in Sicilia pubblicata nell’anno in cui Guastella si licenziava, il 1873. Conseguita la maturità liceale si iscrisse, per assecondare il padre, alla facoltà di Giurisprudenza pur mantenendo contatti con la facoltà di Lettere e quella di Scienza.
Già in questi anni, secondo la testimonianza di Orestano, aveva dimostrato spiccata disposizione alla matematica, anche se i maggiori risultati nell’esame di maturità li ottenne in Italiano, Latino e Storia. Al corso di Giurisprudenza fu ammesso con la votazione di 26/30, e gli studi furono svolti regolarmente con risultati apprezzabili. Era preside della facoltà Giovanni Bruno, professore di Economia politica, con cui Guastella si laureò discutendo una tesi sulla legge della domanda e dell’offerta. Le notizie sul periodo universitario sono scarse, ed un episodio testimonia il suo spirito impulsivo e garibaldino allorché fu fra i capi di una sollevazione che costrinse il Guerzoni, destinato all’insegnamento della Letteratura Italiana nell’ateneo palermitano, ad abbandonare l’isola per avere offeso i picciotti. Del Guastella e della sua vita privata non si conosce alcunché dopo la laurea e cioè a partire dal 1878 e fino al 1897. E’ un ventennio di solitudine trascorso nella sua nativa cittadina, interrotto soltanto dalle sortite a Palermo per rifornirsi di libri, presso le locali biblioteche, o per condurvi ricerche.
Il suo spirito scarsamente incline ad altra cosa che allo studio, gli aveva impedito di trovare, una volta laureato, una sistemazione che sarebbe stata alla portata. Con i risultati ottenuti e le capacità dimostrate non avrebbe avuto difficoltà ad inserirsi nel modo accademico, e ciò a maggior ragione per la carica di Preside che il Bruno, con cui si era laureato, continuava a ricoprire nel 1878. La natura di procacciatore gli era estranea e le testimonianze di quanti lo conobbero ne danno prova; il certificato di laurea, incredibilmente, venne ritirato il 25 gennaio 1899, esattamente ventuno anni dopo il conseguimento.
Dall’isolamento nella sua Misilmeri lo tirarono fuori i suoi familiari, influenti uomini politici della cittadina, allorquando gli conferirono l’incarico di Direttore Didattico della scuola elementare, con la retribuzione, modesta, di cinquecento lire annue; incarico tolto l’anno successivo da una amministrazione avversa, in odio alla sua famiglia.
Intanto nel 1897 veniva pubblicato il primo Saggio sulla Teoria della Conoscenza – Sui limiti e l’oggetto della conoscenza a priori recensito con entusiasmo da W. Benn sulla rivista Mind, cui seguì nel 1905 la pubblicazione del saggio secondo Filosofia della Metafisica. La pubblicazione dell’opera lo abilitava, secondo il meccanismo vigente, all’insegnamento liceale: il decreto ministeriale è del 20 dicembre 1898. Nel 1900 gli veniva conferito l’incarico dell’insegnamento di filosofia presso il liceo Garibaldi di Palermo, dopo un breve periodo di insegnamento presso il liceo di Acireale. Ma ben presto l’università di Palermo, ove era rimasta scoperta la cattedra di filosofia teoretica, dopo la partenza per Pavia di Adolfo Faggi, lo chiamò alla supplenza e d’ora in avanti la vita del filosofo sarà interamente assorbita dall’insegnamento universitario.
Nel 1903 quella università bandì il concorso alla medesima cattedra ed il Guastella lo vinse contro temibili concorrenti. Oltre al ventottenne Giovanni Gentile, al concorso parteciparono Niccolò D’Ambrosio, già ordinario di pedagogia presso il magistero, Guido Villa e Dino Varisco. Con Villa e Varisco, Guastella ebbe l’eleggibilità a voti unanimi.
Nominato professore straordinario, nel 1907 conseguì l’ordinariato. Di lui l’allievo Ferdinando Albeggiani racconta che era uomo mite, taciturno, quasi dimesso sui gradini delle aule universitarie; quando cominciava ad argomentare, il rigore logico, la consapevolezza della inoppugnabilità delle deduzioni che andava svolgendo, lo rendevano autorevole, incutevano profondo rispetto. Subiva, probabilmente, il maggiore carisma di Giovanni Gentile, giovane e brillante docente di Storia della Filosofia, che riempiva le aule di allievi entusiasti. Ma nulla lo indusse a cambiare alcunché della sua asserita condotta. L’unica concessione alla vita, fuori dalle mura universitarie, il suo matrimonio, la storia d’amore di un uomo che faceva professione di ateismo, con una ex suora del Collegio di Maria di Misilmeri, che, a motivo del suo esplodere quando ancora Maria Lo Cascio, tale era il nome della donna, non aveva sciolto il voto, gli procurarono non pochi fastidi. Il ‘caso’ non durò a lungo; la indole aliena da clamori, lo restituì, celebrato il matrimonio, all’antica riservatezza cui mantenne fede fino alla morte.
Della sua prima opera, Saggi sulla teoria della conoscenza, il Saggio Secondo contiene soltanto la prima parte - divisa in due tomi su La causa efficiente - dell’originaria divisione in tre parti; le parti seconda e terza non furono mai scritte. L’altra opera di Guastella, Le ragioni del fenomenismo, apparve a Palermo presso l’editore Priulla, nel 1921-22 e rappresenta una imponente rielaborazione delle concezioni espresse nei Saggi sulla Teoria della Conoscenza. Ciò che nella prima opera era stato utilizzato per fare piazza pulita di ogni concezione metafisica (pars destruens), nella seconda avrebbe dovuto servire a costruire un nuovo sapere libero da superstizioni e pregiudizi (pars construens). Solo il primo dei due obiettivi fu realizzato in modo soddisfacente.
Quando già le spoglie mortali del filosofo riposavano nel cimitero di S. Orsola a Palermo, vide luce la seconda parte de Le ragioni del fenomenismo (1922).
Guastella è autore di una delle più serie produzioni della fine del XIX secolo. Il rigore che dimostra nella definizione dei problemi, l'assenza di sia pure occasionali cedimenti alle mode, l'onestà di affrontare senza recesso problemi di assai complessa soluzione, sono caratteristiche riconosciute anche dai suoi critici. Il tema privilegiato, quasi esclusivo, della sua riflessione è il problema della conoscenza, il rapporto tra conoscenza e realtà, tra soggetto ed oggetto.
Ogni conoscenza comincia con l'esperienza ed ha nell'esperienza la sola pietra di paragone; non si danno conoscenze a priori, cioè prima di ogni esperienza. La piena adesione all'empirismo classico ha due principali corollari: l'oggetto conosciuto è indipendente dal soggetto conoscente, ossia il soggetto non ha alcuna conoscenza di oggetti prima di incontrarli nell'esperienza; l'oggetto conosciuto è indipendente dal soggetto conoscente ma non dal soggetto senziente, poiché la realtà consiste di sensazioni (esse est percepi). La ripresa dei temi dell'empirismo classico (Stuart Mill, Avenarius, Mach), nel rigore che contraddistingue il suo incedere, lo conduce ad una intransigente critica delle posizioni filosofiche definite metafisiche ed elaborate nel corso di più di 2000 anni.
Le filosofie della metafisica scaturiscono da comuni luoghi logici, e la loro affinità è qualcosa che va al di là del loro essere situate storicamente. L'errore comune ad ogni pensiero metafisico consiste, secondo G., in una tendenza irresistibile dello spirito umano a ricondurre l'ignoto alle esperienze che ci sono più familiari; tale tendenza, spesso inconsapevole, è all'origine delle costruzioni filosofiche più mirabili e ne rende inconsistenti e fallaci le conclusioni. Il Saggio sulla teoria della conoscenza è interamente dedicato allo smascheramento dei più elaborati sistemi della filosofia della metafisica, ed alla messa in mora delle loro conclusioni. A tale attività demolitiva noi abbiamo dato il nome di pars destruens.
Prima di passare all'analisi di uno dei più lunghi capitoli dei Saggi, La causa efficiente, vorrei richiamare l'attenzione su alcune posizioni di fondo che caratterizzano la filosofia di G..
Anzitutto il cosiddetto nominalismo in opposizione al concettualismo. Il nominalismo è la concezione secondo cui i nomi generali ed astratti (uomo, cavallo etc.) sono soltanto simboli che sostituiscono immagini concrete e particolari; in altri termini non vi è nulla di reale che corrisponda al concetto di umanità o a quello di cavallinità come vogliono i concettualisti; la loro natura è soltanto verbale (nominalismo).
L'argomento che G. utilizza è il seguente. Ammettiamo che i concetti esistano e vediamoli come fondamenti del conoscere; anzitutto è certo che i concetti non riproducono la realtà, poiché altro è un uomo concreto in carne ed ossa, altro un uomo concepito; ma se è così, se si pensa per concetti, le nostre conoscenze ed i nostri giudizi che vertono sul rapporto fra le idee, non diranno mai alcunché sulle cose. La nostra conoscenza dunque non sarebbe altro che l'articolazione di un sapere che non ha alcun rapporto con il mondo esterno, conclusione quest'ultima inaccettabile.
La concezione nominalistica degli universali ha alcune inevitabili conseguenze sulla teoria del giudizio: se infatti giudicare vuol dire sussumere un caso particolare sotto una proposizione universale, allora deve essere implicitamente riconosciuto un valore alle proposizioni universali. Dunque si danno giudizi a priori, cioè necessari ed universali. Per Guastella tale conclusione è fallace (almeno per quei giudizi che egli definisce esistenziali); il solo valore da riconoscere all'universale è quello che si trova nell' espressione verbale, la quale ci autorizza, in qualche modo, ad estendere ad altri casi ciò che si è trovato vero nei casi già osservati.
Tutti i giudizi sulla realtà (esistenziali) sono a posteriori. Da essi si distinguono i giudizi comparativi, in cui la somiglianza e la distinzione può essere scorta con la semplice comparazione delle idee: tali giudizi sono a priori . L’apriorità dei giudizi comparativi non costituisce, come a prima vista potrebbe sembrare, una eccezione all'empirismo; la somiglianza infatti non è nulla di oggettivo, non è qualcosa che appartiene agli oggetti o alle cose per le quali intercede.


 
2. La causa efficiente
Ne La filosofia della Metafisica, opera in due grossi volumi pubblicata nel 1905 e costituente la seconda parte dei Saggi sulla teoria della conoscenza, Guastella definisce la filosofia metafisica quale frutto dei tentativi dello spirito umano di superare la realtà sensibile e di postularne una assoluta. G. definisce illusorio ogni sforzo che si orienti secondo tale direzione, fondandosi su sofismi quasi incoscienti e prodotti dall'abitudine di assimilare l'ignoto al noto, il non familiare al familiare, di porre come assolute le nostre esperienze limitate.
Uno dei concetti su cui si fonda la metafisica è quello di causa efficiente. L'esame che ne fa il Guastella mira a smascherarne la natura fallace e illusoria, onde fondare una filosofia della natura che si contrapponga a quella metafisica.
Due sono i concetti di causa fissati in forma canonica da David Hume. Il primo è quello per cui la causa si risolve in una successione invariabile di fatti; anche quando si è in presenza di un singolo fatto e se ne può dimostrare la sua appartenenza ad una successione di carattere più generale. La connessione di due fatti è dunque di natura temporale: ogni volta che si verifica il primo ad esso segue il secondo. La natura di tale connessione è estrinseca.
A questo concetto di causa si contrappone la seconda concezione della causalità, più forte, che ritiene debole la connessione temporale postulata dal concetto di causalità nella sua versione empirica. E', in tale prospettiva, segno di debolezza dello spirito, incapacità di ricercare le vere cause dell'esperienza, accontentarsi di tale spiegazione della causalità. Nessuna spiegazione è vera se non viene prospettata la intrinsecità del rapporto di causa ed effetto, se, in altri termini, non viene posta in evidenza la natura necessaria di tale rapporto. La causalità allora non può essere concepita come semplice successione temporale di fatti; il suo concetto dovrà essere riformulato in questi termini: dato un fatto A che chiamiamo causa e un fatto B che chiamiamo effetto, allora non può non verificarsi B all'accadere di A; B segue necessariamente da A.
A tale secondo concetto di causalità deve essere ricondotta la causa efficiente.
Stabilito che cosa si debba intendere per causa efficiente, G. passa ad esaminare nel dettaglio le filosofie sorte dalla tendenza a sostituire la causa secondo la sua interpretazione empiristica con la causa efficiente. Abbiamo già visto che la ricerca della causa efficiente da parte delle cosiddette filosofie metafisiche, nasce dall'esigenza di trovare nel rapporto di causa ed effetto qualcosa che vada oltre la semplice successione dei fenomeni.
Il bisogno è generato dalla abitudine di ricondurre la spiegazione dei fenomeni ad uno schema che ci è estremamente familiare: e per l'uomo non c'è fenomeno più familiare della sua stessa azione, ossia del movimento come effetto del suo spirito. Tutte le filosofie definite da G. aprioriste (Cartesio, Gassendi) sono caratterizzate da tale fallace inconsapevole assunzione, e dalla irresistibile tendenza a trovare dappertutto l'evidenza intrinseca e la necessita che si trova nei fenomeni più familiari.
Una grande quantità di sistemi filosofici sono raggruppati dal G., per la verità con criteri che al limite sono da ritenere opinabili, sotto il tipo del realismo dialettico. Tali sono i sistemi di Hegel, Platone, Taine, Spinoza, aventi in comune la tendenza ad identificare l'ordine ontologico con l'ordine logico, il rapporto di causa ed effetto identico a quello di principio e conseguenza, la successione degli avvenimenti come successione logica. Il loro interesse quali sistemi di pensiero è, secondo G., secondariamente di natura filosofica, ma principalmente di natura psicologica; essi infatti dimostrano quanto ben congegnate possano risultare e quanto lontano portino le costruzioni filosofiche che non sono riuscite ad emendarsi dalla innata tendenza ad assimilare l'ignoto al noto, a sconfiggere i pregiudizi che sono insiti nelle spiegazioni che a noi sono più familiari.
A Platone G. riserva un trattamento particolare poiché la sua lettura del filosofo greco è in netta contrapposizione alla interpretazione tradizionale. In buona sostanza egli confuta l'interpretazione trascendente (le idee sono fuori dalle cose) delle idee platoniche e dimostra, attraverso una lunga e serrata analisi, che l'unico rapporto concepibile fra le idee e le cose sensibili è quello di immanenza. Ed invero, se lo scopo di Platone era quello di trovare una connessione necessaria tra i fenomeni che né la filosofia di Anassagora, né l'empirismo avevano dimostrato di possedere, la stessa connessione rigorosa e necessaria che troviamo nelle idee, allora esse devono essere immanenti alle cose sensibili: altrimenti non potrebbero esercitare alcuna vera funzione di causa. Ancora una volta la critica guastelliana mette in evidenza la tendenza delle concezioni metafisiche a ritenere secondaria la esperienza quale fonte della conoscenza, ed a considerare invece di ben altra valenza altre fonti della conoscenza quali idee innate, reminiscenze, intuizioni intellettuali e via dicendo. La scoperta di un meccanismo psicologico da cui ha origine la metafisica ha offerto al filosofo misilmerese il rasoio con il quale ha egli ritenuto di far piazza pulita, nelle duemilaottocento pagine che costituiscono i Saggi, di oltre duemila anni di speculazione filosofica; centinaia di filosofi sottoposti al vaglio e chiamati in causa mediante citazione diretta delle opere. Il presente paragrafo può solo dare una pallida idea della mole di studio e del numero dei filosofi trattati.

3. Critica al realismo
Il secondo e il terzo volume delle Ragioni del Fenomenismo sono dedicate alla critica del realismo.
La conclusione cui conduce il percorso di critica al realismo è il riconoscimento del solo punto di vista filosofico intorno alla realtà: il fenomenismo, ossia la concezione secondo cui la realtà si risolve in stati di coscienza.
Il realismo si presenta in tre declinazioni che G. notomizza secondo l’inconfondibile stile: il realismo naturale, il realismo dei fisici ed il realismo dei metafisici.
Il realismo naturale può definirsi come quella concezione, molto diffusa, che attribuisce realtà agli oggetti esterni a prescindere dal loro essere percepiti dall’intelletto. L’essere o no percepita di una montagna è un aspetto accidentale del suo essere reale. Conseguenza di tale credenza è l’assunto della identità di uno stesso oggetto, quando sia percepito da diversi soggetti; per cui uomini diversi dicono di percepire lo stesso sole. La critica che G. muove a tale credenza è molto articolata ma noi cercheremo di sintetizzare.
Anzitutto egli si chiede, è proprio vero che i sensi ci mostrino gli stessi odori, sapori, colori etc.? Se tali qualità appartenessero all’oggetto, così come vuole il realismo, come è possibile che di fronte allo stesso oggetto, soggetti diversi provino sensazioni differenti: sentano sapori diversi, vedano colori diversi, abbiano sensazioni di calore diverse? E poi ancora, come è possibile che un microscopio ci riveli aspetti estremamente diversi dell’oggetto che vediamo ad occhio nudo? Tali critiche conducono alla conclusione che nell’atto della percezione la coscienza avverta propri stati e non cose in sé. Gli oggetti reali hanno una natura psichica e ciò è dimostrato dal fatto che non esiste un limite netto tra un oggetto immaginato ed uno reale; quando ad esempio ci troviamo troppo vicini ad un oggetto è l’immagine psichica che soccorre ed integra la percezione che, da sola, non sarebbe sufficiente a darci una rappresentazione dell’oggetto. A questa conclusione si può obiettare che se la realtà in sé non esiste e si risolve in stati psichici, come è possibile distinguere tra apparenza e realtà, tra sogni e realtà? La risposta di G. è che l’unico criterio per distinguere apparenza e realtà consiste nella coerenza delle sensazioni reali rispetto alla incoerenza e sregolatezza delle sensazioni apparenti, come quelle ad esempio che vengono fuori dai sogni.
La seconda forma di realismo, il realismo dei fisici, pur concedendo che ogni altra qualità dei corpi si risolva in sensazione, afferma che l’estensione è qualcosa che appartiene ai corpi stessi e non può essere ridotta ad alcuna sensazione. G. dimostra ancora una volta l’errore che si cela dietro al ragionamento e conclude che tutta la materia ed il mondo dei corpi si risolve in nostri stati di coscienza.
Analoghe obiezioni sono mosse nei riguardi della terza forma di realismo, quello metafisico.
La critica del realismo conduce al fenomenismo come unica concezione logica dell’universo. La formula filosofica che meglio rappresenta il fenomenismo è esse est percepi, ossia la realtà si risolve nella percezione e nella coscienza che abbiamo di essa. Guastella è consapevole delle difficoltà insite nella concezione fenomenista della realtà, ma si prova ad affrontare tutte le obiezioni.
Anzitutto è importante chiarire che cosa debba intendersi per coscienza, poiché la coscienza è la base di ogni fenomenismo.
Coscienza è un complesso di fenomeni psichici accomunati da una relazione sui generis, che possiamo definire relazione di unità. Percepire un oggetto e averne coscienza significa averne una percezione unica -  nel percepire un oggetto abbiamo diverse sensazioni, la durezza, il colore, la temperatura, le percezioni tattili, che costituiscono una percezione unica.
Altro carattere della coscienza (consapevolezza psichica) è la memoria; unità sintetica della percezione e memoria costituiscono i fattori dell’identità personale.
Il mio io, il me identico e con una sua storia, attraverso tutte le impressioni, sorge proprio dalla presenza della unità sintetica della percezione e dalla memoria. Dall’io è possibile passare al mondo oggettivo, al mondo esterno, costruire il mondo esterno come insieme di sensazioni fra cui si può scorgere un incatenamento naturale. In altri termini il mondo esterno non sarebbe altro che l’insieme di tutte le sensazioni, esistenti e possibili,che hanno una certa regolarità e si svolgono secondo una certa coerenza. Ciò spiega come si forma il mondo oggettivo per il soggetto.
Ma come è possibile spiegare, a partire dalla coscienza, che lo stesso oggetto mantenga la stessa identità per soggetti diversi?
Per rispondere al punto di domanda G. si trova a dovere affrontare il problema dell’origine e della legittimità della credenza nella esistenza di altre coscienze. Il fenomenismo altrimenti rischierebbe di cadere nella rete del solipsismo, ossia nella paradossale conclusione che solo io esisto e che tutto ciò che mi circonda altro non è che prodotto ed elaborazione della mia coscienza.
La dimostrazione della esistenza delle altre coscienze è condotta da G. attraverso il metodo dell’induzione. Vi sono alcune sensazioni esterne particolari che appartengono al mio corpo. Il mio corpo mi dà le stesse sensazioni di qualsiasi altra cosa (lo vedo, lo tocco, lo odoro etc.) ma con qualcosa in più rispetto alle altre mie sensazioni esterne; se ordino alla mia gamba di muoversi, essa si muove. La percezione del mio corpo è pertanto preceduta e seguita da certi stati di coscienza appartenenti alla serie che io chiamo il mio spirito. Se osservo altri fenomeni fisici simili, ad esempio il movimento del corpo di altre persone, ho motivo di pensare, per induzione, che anch’essi siano legati a rapporti di sequenza ed antecedenza simili a quelli la cui catena costituisce il mio spirito. Ho in altri termini motivo di pensare che esistano altre coscienze oltre alla mia. Attenzione però a non cadere nell’errore di considerare il fenomenismo come una sorta di idealismo - ossia la concezione secondo cui la realtà è il prodotto di una sistema di idee, sia esso soggettivo o oggettivo; infatti la negazione fenomenista delle sensazioni quali effetti di cose in sé materiali, sembra ammettere la tesi opposta e cioè che le sensazioni siano prodotte dallo spirito. G. qui si limita ad una semplice negazione della inevitabile caduta nell’idealismo, e liquida la questione affermando che le sensazioni sono dati ultimi che bisogna ammettere senza ulteriori spiegazioni.
La realtà è dunque costituita da una molteplicità di spiriti e da una molteplicità di stati di coscienza; tutte le cose si risolvono in sensazioni. Nulla esiste se non vi è coscienza; la domanda circa ciò che esiste prima del formarsi della coscienza - poiché secondo Guastella la coscienza ha avuto origine nel tempo - è una falsa domanda, poiché è assurdo che degli esseri senzienti possano avere avuto sensazioni prima ancora che sorga la coscienza.
Definito il fenomenismo, Guastella dedica il terzo volume de Le Ragioni del Fenomenismo al problema delle antinomie, le quali sono, come è noto, coppie di proposizioni contrarie di cui sembra si debba ammettere necessariamente o l’una o l’altra, mentre non si può ammettere né l’una né l’altra (F. Albeggiani, Il sistema Filosofico di C. Guastella, Firenze Le Monnier, 1927).
La trattazione delle antinomie non si discosta da quella condotta da Kant nella Dialettica Trascendentale (Critica della ragion pura) e tende a dimostrare il valore del fenomenismo nel risolvere i paradossi generati dalle antinomie; essa dà inoltre a G. la opportunità di mettere a fuoco una teoria dell’infinito che tende a contrapporsi alle concezione esposte da Cantor e da Enriques nelle loro tesi sugli insiemi transfiniti, su cui si fonda l’analisi matematica di fine ottocento e della prima metà del secolo scorso.
Ciò che pare degno di menzione, dal punto di vista storiografico, prima di concludere, è sottolineare una evoluzione sostanziale del concetto di verità tra il primo e il secondo Guastella: mentre per i Saggi sulla teoria della conoscenza la realtà di una rappresentazione consiste nella esistenza di una realtà oggettiva, per Le Ragioni del Fenomenismo, la verità di una rappresentazione è tutta identificata con la sua capacità (funzionalità) di rendere possibile la previsione di fenomeni. La verità funzionalista è probabilmente frutto dell’influenza del pragmatismo americano e di alcune concezioni precorritrici del neopositivismo; vero equivale a scientificamente vero, verificabile.
Nel prossimo paragrafo tratteremo le critiche al fenomenismo, i suoi punti di debolezza, i problemi lasciati irrisolti.


 
4. Critiche alla filosofia di Cosmo Guastella
Guastella si forma ed opera in un clima filosofico dominato dal positivismo e da uno dei suoi più autorevoli esponenti, Roberto Ardigò (1828-1920).
Caratteristica principale del positivismo è l’affermazione del reale, del particolare (positivo) quale fondamento e prius di ogni conoscenza: l’esperienza immediata è fonte e radice di ogni conoscenza. La temperie positivista è radicata nelle università, nelle più disparate istituzioni culturali, nella stampa, condiziona fortemente la formazione di G. e rappresenta, da un punto di vista generale, l’orizzonte entro cui si muoverà la sua speculazione. Il fenomeno infatti, il fatto particolare, nella concezione guastelliana, sono la fonte prima di ogni conoscenza e costituiscono il momento ultimo di quel rimando che legittima ogni nostro sapere. Le analogie tra il fenomenismo di Guastella e il positivismo tuttavia si fermano a tale livello di questioni. La meticolosità dell’esame guastelliano dell’esperienza nei suoi aspetti soggettivi, è estranea al positivismo. Essa testimonia la notevole influenza esercitata dall’empirismo inglese (J. Stuart Mill) sul fenomenismo. Dell’opera che Stuart Mill svolge per ridurre tutta la nostra conoscenza all’esperienza, Guastella è il più autentico e rigoroso continuatore. L’essere si risolve nel fenomeno. La realtà è fenomeno; costruiamo la realtà mettendo insieme, in un contesto unitario costituito dal nostro io, tutte le sensazioni che vengono dal mondo esterno. Il mondo esterno altro non è se non le nostre sensazioni. Oltre alle sensazioni determinate, particolari, non esiste altra realtà; le proposizioni universali, generali, hanno solo un valore nominale.
La prima critica che muoviamo al pensiero di Guastella verte sul nominalismo. Il nominalismo è la tesi secondo cui le idee delle cose consistono in rappresentazioni; la valenza dei concetti generali è solo nominale e ragionare è passare dal particolare al particolare. La specificità del pensiero consiste nella affermazione di rapporti fra immagini (le immagini particolari delle cose che ci vengono fornite dai sensi), di rapporti di somiglianza, di differenza, di coesistenza. Ora, noi chiediamo al G.: come è possibile, dentro una visione nominalistica, concepire l’oggettività del giudizio? L’affermazione dell’esistenza di rapporti di somiglianza o successione fra dati sensibili è possibile in quanto si giudichi; l’atto del giudicare non può essere nelle cose che percepiamo, nei fenomeni, è qualcosa al di fuori di essi e che non deriva da essi. Il giudizio quale affermazione di un rapporto oggettivo, suppone una nozione universale di qualcosa – che possiamo definire “essere” – entro cui ha valenza il giudizio. Non possono dunque vivere sotto lo stesso tetto una visione nominalistica e la concezione del giudizio quale strumento rigorosamente oggettivo. A meno di far risorgere l’universale – e dunque abbandonare il nominalismo -, la cui confutazione tanto sforzo è costata al Guastella.
Altro versante sul quale il nominalismo sembra vacillare è quello dei cosiddetti postulati della validità del pensiero. G. conviene che il principio i) ‘il futuro si conformerà al passato’ non può mai essere provato dall’esperienza. Ma il principio di causa è, in buona sostanza, un caso particolare del più generale postulato i), e pertanto anche il principio di causa sarà inderivabile dall’esperienza e ne è a fondamento.
Vi sono alcune altre aporie in relazione alle quali il fenomenismo, anche nelle forme che ha assunto in pensatori successivi a G., si rivela incapace di proporre una coerente concezione della realtà (cfr. Domenico Tubiolo La Scienza allo specchio, Palermo, 1999). Esso, anzitutto, nonostante gli innumerevoli sforzi, non riesce a superare i limiti della soggettività (coscienza) postulando di volta in volta o un insuperabile solipsismo o forme di idealismo soggettivo. Semplificando, la realtà per il fenomenismo si risolve in stati di coscienza che costituiscono i mattoni con i quali è costruito l’edificio della conoscenza ed il mondo stesso. Gli stati di coscienza costituiscono il polo empirico che dà certezza inconfutabile ad ogni nostra conoscenza. I miei stati di coscienza appartengono alla mia coscienza. Le altre coscienze, cioè gli altri soggetti, per me non esistono; io non percepisco le altre coscienze; io, ad esempio, percepisco nel mio campo visivo una immagine che pressappoco ha le mie stesse caratteristiche fisiche, che tiene con le mani qualcosa, una penna, ed ha la stessa postura di quando io scrivo qualcosa su un foglio di carta; nessuna cosa del fenomeno che percepisco mi può attestare l’esistenza di uno stato di coscienza dietro alla azione che sto vedendo. Per riconoscere gli altri uomini ed attribuire ad essi una coscienza ho bisogno di una induzione. Date alcune sensazioni esterne A e alcuni stati psichici B che chiamo il mio spirito, e dati alcuni gruppi sensazioni A’ inferisco che esistono altre coscienze B’. Ma mentre è legittimo il passaggio da A a B, è palesemente illegittimo quello da A’ a B’. Ciò che io infatti percepisco come stato di coscienza e cioè il rapporto tra le sensazioni ed il mio stato psichico, non potrò mai percepirlo nel rapporto tra gli stati di coscienza e le sensazioni di un altro soggetto, per il semplice fatto che sia la coscienza che le sensazioni di un altro soggetto sono per me fenomeni che non hanno nulla di simile alla mia esperienza di ‘avere coscienza di percepire qualcosa’: se pertanto nulla di simile vi è dal punto di vista del mio stato di coscienza, non si capisce come possa inferire l’esistenza di un altro soggetto. Se non perché io già lo presuppongo. Stando così le cose, anche l’esistenza degli altri soggetti è una assunzione metafisica proprio perché non è riconducibile a connessioni oggettive del reale (esperienze) che la legittimino. Il punto è che una rigorosa prospettiva fenomenista non trova alcun punto d’appoggio per saltare al di fuori della coscienza; l’esistenza di altri soggetti è indimostrabile.

5. Conclusioni
Dobbiamo considerare, in relazione a ciò, fallimentare l’opera di G., inutili le sue lunghe e laboriose meditazioni? Penso proprio di no.  Del lavoro di G. rimane la verve critica, il metodo impietoso che smaschera la fallacia di molte asserzioni metafisiche contenute nelle  opere passate al setaccio. Credo altresì vi sia nelle contraddizioni della filosofia di G., contraddizioni che ne decretano la confutabilità, qualcosa che vada oltre il significato dei termini stessi. Egli si è tanto adoperato per affermare la verità delle asserzioni scientifiche e la illusorietà delle cosiddette verità metafisiche. L’impresa scientifica è caratterizzata dalla rivedibilità delle teorie, dalla falsificabilità; una volta falsificata, una teoria scientifica, per quanti sforzi essa sia costata, viene abbandonata dalla comunità scientifica e ad essa subentra un nuovo paradigma che a sua volta sarà sottoposto a nuovi tentativi di falsificazione. La filosofia di G. ha, da questo punto di vista, qualcosa in comune con le teorie scientifiche, e questo è ciò che intendevo quando parlavo di significato che va oltre i termini stessi; essa è una filosofia che una volta confutata non cerca appelli, e ciò perché, in qualche modo, offre, non equivocamente, assunzioni fondamentali falsificabili.
L’esatto contrario succede con le filosofie della metafisica: per quante falsificazioni possano prodursi di asserzioni metafisiche, mai  risultano decisive al punto da decretarne la inappellabile condanna. Forse perché nelle filosofie della metafisica non sono dati punti di portata cruciale, tali cioè che la loro confutazione ha il peso di cassare il sistema filosofico tout court. Ed il fatto che oggi stiamo a discutere della confutabilità di alcune assunzioni fondamentali del pensiero di G., il cui rigore evoca il rigore della ricerca scientifica, penso sia il più grande riconoscimento che gli si possa tributare.